ALCUNI GIUDIZI POCO NOTI SULLA RSI
GIUDIZI SULLA RSI DI
DUE ILLUSTRI ANTIFASCISTI
Enrico Landolfi
Fra meno di un anno la Repubblica
Sociale Italiana - con la sua immagine proiettata in un tempo breve, tragico,
sanguinoso - avrà toccato il traguardo del mezzo secolo. Nel corso
di questi dieci lustri anche nel campo della cultura democratica e di sinistra
sono state operate parziali, ma niente affatto irrilevanti, revisioni di
giudizio sui seicento giorni gardesani di Mussolini. Anzi, in taluni casi,
si sono registrati veri e propri salti di qualità nella valutazione
di quella remota, drammatica esperienza. Come, ad esempio, nell'abbastanza
recente, amplissimo saggio di Claudio Pavone, fra le cui pagine è
collocata la «scoperta» di una verità ormai incontrovertibile:
il conflitto che accompagnò il saloismo dalla culla alla tomba fu
vera e propria guerra civile, con tutti gli attributi di dignità
e terribilità connessi a simile evento.
Dignità perché
la nozione stessa di guerra civile presuppone, in ambedue i contendenti,
un ideale, una bandiera; un interesse, cioè, non personale bensì
superiore e, pertanto, superatore di ogni pregiudizio e presunzione, nell'avversario,
di bassezza di istinti, di cinismo, di svincolo da passioni civili, di
totale assenza di tensione morale, di disamore per la propria Nazione,
di sordità agli stimoli della politica intesa nella più alta
accezione.
Terribilità perché
fra i vari tipi di guerra possibili certo quella fratricida è la
più deprecabile, odiosa, disumana. E destinata a lasciare solchi
profondi, segni ineliminabili, ferite irrimarginabili lungo il fluire delle
generazioni, dentro i confini dello stesso paese, nell'ambito di una medesima
comunità nazionale, nelle strutture di un unico Stato. Spesso, diremmo,
a far piangere la stessa madre. Uno scrittore immeritatamente dimenticato,
che ebbe parte attiva in senso giornalistico-letterario nella RSI, il sardo
Stanis Ruinas - vecchio fascista con forte vocazione di sinistra, dalle
complesse vicende esistenziali e politiche postbelliche -, in un libro
dedicato ai fatti tremendi dell'Italia '43-'45, edito nella seconda metà
degli Anni Quaranta con il titolo «Pioggia sulla Repubblica»,
narra di una famiglia veneziana nell'ambito della quale due figli giovani,
uno fascista e uno legato alla Resistenza, contendono, non certo ad armi
cortesi. I ragazzi, nel tardo pomeriggio di ogni giorno, lasciavano la
casa paterna per vivere pienamente il proprio impegno militante in modo
violento e periglioso. Fu così che una sera, a conclusione di scontri
fra Neri e Rossi, uno dei due divenne - senza saperlo e senza volerlo -
l'assassino dell'altro. E così quella madre pianse. Quei genitori
piansero.
Per tanti anni lo Stato di
Salò venne generalmente considerato poco più - o poco meno
- di un possedimento coloniale dei nazisti. Insomma: si scrive RSI, si
legge Terzo Reich; si scrive Mussolini, si legge Hitler. Di più:
tutti i fascisti di allora, coinvolti in quella avventura, furono considerati
- imberbi, giovani, anziani o vecchi che fossero - un pugno di traditori
criminali al servizio mercenario delle truppe tedesche. E, quando proprio
si intendeva dar prova di benevolenza, si declassavano le colpe di fellonia
e venalità in più veniali peccati di balordaggine, immaturità,
leggerezza, inconsapevolezza. Specie se il reprobo fu in grado di esibire
un modico numero di compleanni, l'operazione perdono risultò agevole,
fattibile. Vennero così gettate le basi del pentitismo dei lustri
successivi, con tutti gli annessi e connessi in termini di procacciantismo
abbietto, conformismo estorto, conversionismo sfacciato e ambiguo, a tutti
ben noti. Esattamente il contrario di ciò che sarebbe stato giusto
e intelligente e proficuo fare nell'interesse dell'unità nazionale,
della democrazia, di una svolta fortemente sociale e popolare nel Paese.
Il trascorrere delle epoche
e delle generazioni, il rasserenamento dei clima politico, la più
pacata riflessione su uomini, fatti e cose dell'ultima fase del mussolinismo,
la necessità di trovare un modus vivendi a livello delle istituzioni
e della società civile fra uomini e donne delle fazioni che si erano
affrontate nella lotta intestina e loro... successori, contribuirono a
placare, ridimensionare, smorzare risentimenti e sentimenti. Anche perché,
nel frattempo, personaggi lungimiranti, illuminati, prestigiosi del mondo
della democrazia e della Sinistra si erano preoccupati di agire nel senso
di una chiarificazione pacificatrice e superatrice al di fuori del superficiale,
pasticcione, pasticciato pentitismo. Qui il discorso tracimerebbe oltre
lo spazio consentito, ma non mancherà occasione per riprenderlo.
Ci limitiamo pertanto a qualche nome della complessiva area socialista
del buon tempo andato, Ignazio Silone, Ugo Guido Mondolfo, Carlo Andreoni,
Ugo Zatterin, Tullio Vecchietti, Giuseppe Faravelli, etc. Ma, sia detto
ad onor del vero, anche Bettino Craxi e Lelio Lagorio, uno scrittore e
giornalista come Giancarlo Lenher, Arduino Agnelli ed altri hanno «cossighianamente»
picconato su tutta una serie di blindatissimi tabù. Vogliamo ricordarcelo
il lagoriano «Anno di Garibaldi» al Ministero della Difesa?
Un modesto apporto alla retta
e corretta comprensione di ciò che effettivamente fu la RSI vorrebbe
darlo anche l'estensore di questo pezzo, uomo di sinistra, della Sinistra,
nella Sinistra. E darlo facendo a meno di schiamazzi polemici, senza accentuazioni
«originalistiche», prescindendo da retoriche «difensivistiche»
che non gli appartengono perché non gli possono appartenere. Delle
quali, peraltro, non c'è bisogno alcuno, giacché i fatti,
ormai, sono ben più eloquenti della eloquenza stessa. Un contributo,
questo nostro, tipico di chi non da oggi si diletta di scorribande dentro
polverosissimi scaffali di biblioteche disertati da tempo immemorabile,
di scoop «storici» inseguiti in incunaboli tanto venerandi
quanto obliati.
Vediamo. Ivanoe Bonomi veniva
in evidenza, in quei frangenti tempestosi e fatali, come leader, diremmo
istituzionale, dell'antifascismo. Era, infatti, il presidente del Comitato
di Liberazione Nazionale, che raggruppava i sei partiti fondamentali della
opposizione al regime fascista. In tale veste nel giugno '44, subito dopo
l'ingresso degli Alleati in Roma, era succeduto a Badoglio come capo del
governo di coalizione esarchica, incarico che tenne fino alla cessazione
delle ostilità per quindi passare il testimone a Ferruccio Parri,
catapultato al Viminale, dal famoso, impetuosissimo «Vento del nord».
Il Bonomi - vecchio riformista bissolatiano di Mantova, già ministro
della guerra e Presidente del Consiglio prima dell'avvento del fascismo,
deceduto negli Anni Cinquanta mentre era Presidente del Senato - così
annota nel suo «Diario», relativamente alla genesi della Repubblica
Sociale: «'E indubbio che questa proclamazione (della RSI, ovviamente.
N.d.R.) non lascerà indifferenti gli italiani. I fascisti applaudiranno,
gli antifascisti fischieranno non la Repubblica, sibbene il nuovo apostolo,
ma gli uni e gli altri constateranno che una Monarchia è caduta
e una Repubblica è sorta, e che un problema nuovo s'impone alla
loro meditazione e alle loro successive determinazioni. Quale sarà
la situazione italiana tra poche settimane? Nella zona settentrionale e
centrale d'Italia (cioè nei due terzi dell'antico Stato) sarà
instaurata la Repubblica che funzionerà con un Capo, un suo Governo,
e una sua Forza Armata. Nel Mezzogiorno e nella Sicilia invece gli angloamericani
daranno man forte alla Monarchia ... »
Come ognun vede, il capo istituzionalmente
riconosciuto dell'antifascismo si guarda bene dallo snobbare, dal disprezzare,
dal sottovalutare la RSI. Per lui, le formazioni cielleniste si trovano
a dover fronteggiare non un raggruppamento di rinnegati al soldo dello
straniero invasore, ma una vera Repubblica, con veri organi costituzionali,
con vere Forze Armate. Dei tedeschi - che pure, vivaddio, nel Centro e
nel Nord ci sono, eccome se ci sono, e costituiscono un grossissimo problema
anche per Mussolini - non fa menzione alcuna. Mentre, per ciò che
attiene al Regno del Sud, afferma solo che gli Alleati altro non faranno
che rincalzare nella massima misura possibile il vacillante e ridottissimo
reame sabaudo. Ciò perché - ci permettiamo di maliziosamente
chiosare noi - essi si troveranno assolutamente a proprio agio con un re
carico di complessi di colpa, contestato da tutti in tutto e per tutto,
totalmente delegittimato, politicamente debilitatissimo e, pertanto, strumento
pressocché inanimato nella mani dei vincitori. Insomma, un vero
e proprio re travicello.
Il Bonomi, fondamentalmente
uomo mite e patriota propugnatore di un socialismo nazionale - non certo
un debole, un pupazzo nelle mani dei partiti e degli angloamericani, tanto
vero che nell'estate del '44 protesterà con forza per l'annuncio
da parte alleata della sottrazione all'Italia di tutte le colonie - nel
dopoguerra sarà favorevole alla pacificazione nazionale proprio
mentre imperversavano discriminazioni e vendette. Rispondendo alle sollecitazioni
di Carlo Silvestri - che lo invitava a gettare tutto il peso della sua
autorevolezza nel dibattito culturale e politico relativo al rapporto della
Italia democratica con il recente passato littorio e con coloro che lo
hanno incarnato, onde farvi prevalere le tesi distensive e conciliazioniste
- così epistolarmente si esprime: «Caro Silvestri, ho ricevuto
i giornali che documentano la tua tenace assidua intelligente opera per
la pacificazione del Paese. Mi rallegro con te per l'attività spesa
ad un fine così nobile ed alto. Io pure - nella mia faticosa campagna
elettorale - ho perorato la medesima causa. E tempo che l'Italia esca dalle
fazioni per entrare nel regime vero della democrazia, che vuol dire libertà
e tolleranza. Io oggi posso fare assai poco. Sono ormai un solitario nell'epoca
dei partiti di massa. Oggi il protagonista è la folla e non più
l'uomo. E le folle si tengono con le tessere di partito. Se il socialismo
tornasse sulle orme di Turati e di Bissolati il mio riformismo rifiorirebbe.
C'è qui dietro di me il ritratto della Signora Anna (Anna Kuliscioff,
compagna di Filippo Turati. N.d.R.) che mi ricorda tempi lontani e inobliabili.
Purtroppo è il difetto dei vecchi di guardare indietro e di sentire
la nostalgia del passato. Cordiali saluti dall'aff.mo Ivanoe Bonomi.»
Ecco un Bonomi in edizione più che mai tricolore - nel primo dopoguerra
si contrappose all'amico carissimo Bissolati nel rivendicare per l'Italia
tutta la Dalmazia - e anche un po' antipartitocratico.
E veniamo ad un altro personaggio
di grosso spessore storico, prestigiosissimo: il Maresciallo d'Italia Enrico
Caviglia. Costui - eminente condottiero nel corso del primo conflitto mondiale,
ministro della guerra, senatore, Collare dell'Annunziata e, pertanto, cugino
del re - non appena ha notizia dell'ingresso del collega Rodolfo Graziani
nel governo della RSI come ministro delle FF.AA., gli scrive una lettera
affettuosissima nella quale, tra l'altro, si legge: «Sono con
te. Ti seguo. Sta attento. Cerca di comportarti con equilibrio. Hai assunto
una parte tremenda, ma certamente sarà, speriamo che sia, utile
per la patria. Tu nel tuo discorso hai detto: il vecchio Maresciallo Caviglia,
ma guarda che ho 82 anni solamente.»
Il Graziani sarà rimasto
certamente sorpresissimo, giacché il Caviglia era in fama di antifascista
fierissimo. Al suo processo dirà: «Caviglia mi scrisse
una lettera di piena adesione al Governo repubblicano, pur senza prendervi
parte attiva.» E ancora: «Il Maresciallo Caviglia aveva
scritto anche un'altra lettera, che era indirizzata al generale Cavagnari
e nella quale approvava calorosamente la creazione del nuovo Esercito repubblicano,
ed auspicava che diventasse il nucleo del futuro Esercito italiano.»
Intendiamoci, l'ottuagenario
altissimo dignitario castrense aveva in uggia e in dispetto il Badoglio.
Anzi, tanto per essere chiarissimi, fra i due non era mai corso buon sangue.
Del capo del governo trasferitosi a Brindisi con la famiglia reale soleva
dire: «è come un cane da pagliaio, corre dove c'è
il boccone più grosso.». E scusate tanto se è poco!
Va da sé che l'avversione per il vincitore della guerra etiopica
non poteva che indurlo all'amicizia col Graziani. Non si è sempre
detto «il nemico del mio nemico è mio amico»?
Ma non esiste solo la testimonianza
di Rodolfo Graziani, bensì anche quella del principe Junio Valerio
Borghese, comandante della X MAS, medaglia d'oro per aver violato la fortezza
di Gibilterra. Costui racconterà al giornalista Bruno Spampanato
della visita fatta dal Caviglia al primo nucleo della «Decima»
in La Spezia. E delle parole di incoraggiamento pronunciate per le nuove
Forze Armate della RSI da questo irriducibile antifascista.
TABULA RASA N. 6-7, OTTOBRE 1992
(Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)